Lo straordinario nel quotidiano: racconta un episodio di vita quotidiana, anche apparentemente insignificante, inserendo all’interno del testo il topos della conversazione.
Alice spense l’auto dopo un parcheggio da incubo.
Aveva la gola secca perché aveva appena finito di litigare con sua madre. Respirò e inspirò evitando di guardare la figura ben nota e in ghingheri sul sedile del passeggero al suo fianco, gli squallidi condomini residenziali di periferia che si offrivano al suo sguardo.
“Verde: cuore, giallo: viscere sopra l’ombelico… Questo è il tuo spazio, questa è la tua macchina, l’hai comprata dopo aver preso con fatica la patente e nessuno te la può togliere, a parte il carro attrezzi, ovviamente. Arancione: viscere sotto l’ombelico, rosso: osso sacro…” cercò di ripetersi.
Prese dal vano nel cruscotto delle salviette umide per asciugarsi il busto completamente bagnato, lisciò il vestito verde che aveva comprato l’estate prima, del colore dei suoi occhi. Ma a che serviva? Sua madre ostentava il broncio. Le chiese con uno sguardo se era pronta. Quello era l’ultimo luogo al mondo in cui Alice avrebbe voluto essere, e avrebbe voluto morire piuttosto che partecipare a quella festa di fidanzamento, ma doveva obbedire a sua madre. Era sempre stato così.
Uscì dall’ auto, chiuse la portiera e si avviò verso il numero civico 18. Una palazzina incerta se essere un grattacielo o una cà de ringhera. Trovò il cognome che detestava dall’infanzia con tutto il suo cuore. “Suona tu il citofono, Alice, hai la voce più bella della mia”. Alice ancora non capiva se sua madre non si rendesse proprio conto del male che le infliggeva o se lo facesse consapevolmente, per piegarla all’idolatria dei suoi straordinari parenti. Fece finta di sistemare il regalo che recava nel sacchetto. Sua madre sgranò gli occhi e poi premette il bottone di plastica.
“Che bambina cattiva sei, a volte” commentò con durezza per poi annunciarsi con umiltà: “Sono la zia Lily con Alice, Georgie cara!”
Se avesse potuto genuflettersi l’avrebbe fatto. Entrarono nell’ ascensore, ed Alice pregò Gesù, la Madonna, gli angeli, i santi, tutte le divinità indù che conosceva che il cavo si rompesse o l’elettricità saltasse, tutto pur di non arrivare. E invece eccole davanti all’anonima porta. Dovette suonare lei il campanello. Erano più di cinque anni che evitava di incontrare Georgie, mai abbastanza, ma lei era il tipo che non cambiava mai. Accolse con un caloroso sorriso e abbracci eccessivi zia e cugina, le fece entrare nell’appartamento, e non si capiva se sfoggiasse di più il grosso diamante che portava sul dito sgraziato e laccato di verde o il fidanzato, Alex, che le stava sempre discretamente al fianco, pronto ad obbedire ad ogni comando. Si fece un punto d’onore nel mostrare la casa ad Alice: la cucina, il bagno e la camera da letto decorata con cattivo gusto e disordine. Poi la condusse nel minuscolo salotto e la presentò ad un gruppo di amiche con relativi compagni notevolmente spento. Ma solo così lei poteva brillare, ed Alice lo sapeva.
“Non eri mai stata da me, vero, amore?” cinguettò Georgie, sedendosi accanto ad Alex e avvinghiandosi alla sua mano.
“No” ammise l’altra.
“Certo, Rimembranze di Lambrate non è… come si chiama dove vivi con la zia?”
“Via Fiori Chiari.”
“Già, molto più poetico, in centro a Milano e a Brera! Ma almeno è tutto mio.” Le porse una coppa di vino puzzolente.
“Grazie, Georgie, preferisco un tè.”
“Credevo che avessi imparato a bere, in tutti questi anni…”
“Non è una questione di abitudine, ma di salute: soffro di calcoli.”
“Cosa vuol dire, anche la mia cistifellea non funziona, eppure non rinuncio al mio bicchiere, soprattutto oggi! Devi sempre fare quello che vuoi, eh, Alice?”
“Non voglio litigare, Georgie.”
“Anch’io prendo un tè, se non ti spiace” intervenne un amico di Alex, con i capelli rossi e il viso simpatico. Porse una mano ad Alice e si presentò come Mark. Lei non poté fare a meno di sorridergli.
Ad un cenno di Georgie Alex scattò in piedi, andò in cucina, ritornò recando il tè per i due ospiti con altre bevande e aiutò la fidanzata a distribuire le partecipazioni. Le amiche si affrettarono a lodare l’eleganza di quel foglio cartonato d’impronta vecchiotta, con i due nomi, la data e il luogo scritti in inchiostro nero.
“E la luna di miele?” domandò Mark, guardando il suo silenzioso amico. Georgie si affrettò a rispondere per lui che ancora non avevano deciso, forse il Giappone o il Madagascar, ma doveva essere un bel viaggio. Certo, la cosa più seccante sarebbe stata chiedere i giorni di ferie in anticipo al lavoro, “e in tutti questi anni non sono mai stata via dall’ufficio. Tu da quanto non lavori, amore?” chiese, rivolgendosi ad Alice. Era il suo modo di punirla per non essersi unita al clima generale di adorazione della sua persona. L’altra cercò di nascondere l’imbarazzo, girò il cucchiaino nella tazza troppo grande e balbettò qualcosa, asserendo tuttavia che dopo l’estate avrebbe iniziato un corso di aggiornamento che garantiva un posto sicuro. Si chiuse a riccio prima che Georgie riuscisse a farla piangere.
“Che lavoro fa?” si interessò Mark, rimasto al suo fianco.
“Stilista e costumista teatrale.”
Alice si aspettava sguardi di scherno, magari di pietà, e la lezioncina che tutti le davano sul “mestiere che non paga”. Lui invece era sinceramente ammirato, la mise a suo agio, e lei dimenticò di trovarsi in mezzo a tanti estranei. Gli raccontò dei suoi studi all’Accademia di Belle Arti, degli anni passati come assistente in un laboratorio che poi era stato assorbito da un grande marchio internazionale, del contratto non rinnovato, degli amici che erano tutti andati a lavorare all’estero, delle collaborazioni stagionali con enti culturali comunali.
“E non sa manco cucire un bottone!” commentò Georgie; ma Alice rise perché stava ascoltando un aneddoto di lavoro di Mark che, cuoco sulle navi da crociera, una volta in Papua Nuova Guinea aveva rischiato di essere servito per pranzo. Quello scialbo appartamento, quanto di fintamente gioioso vi si stava svolgendo, non aveva più importanza. Un’atmosfera calda e luminosa avvolgeva Mark ed Alice, quella che si prova quando finalmente si incontra un’anima affine. La sensazione che qualcosa di nuovo stava accadendo, che una diversa direzione stava per essere impressa alla sua vita, che i suoi giorni di solitudine stavano per terminare la pervadeva. Non sentì più altro finché non giunse il momento di andarsene. Mark le chiese il numero di telefono. Sì, sentirsi, mandarsi messaggi nel cuore della notte anche se non ne avevano più l’età, stabilire incontri, appuntamenti, costruire un futuro insieme, finché, un giorno, anche loro… ma Alice scorse sul muso da porcellina di Georgie un’espressione di trionfo. Le avrebbe sempre rinfacciato di aver trovato un uomo alla sua festa di fidanzamento, quindi grazie a lei. E questo non poteva permetterlo. Era una questione d’orgoglio. Smise di guardare in faccia Mark e si negò con una scusa patetica. Lui non capiva, insistette, volle lasciarle il suo numero anche se entrambi sapevano che non l’avrebbe mai chiamato, domandò il perché di un cambiamento così repentino… “Perché sì” riuscì a replicare lei.
Gli porse la mano e lui la strinse, il loro ultimo contatto.
Mentre guidava verso casa Alice sentiva in sé non tanto la solita esasperata spossatezza dopo un incontro con Georgie, ma un gelo interno indescrivibile, come se davvero dentro di lei qualcosa fosse morto. Non voleva ammetterlo con sé stessa, ma era evidente che aveva sprecato un’occasione di felicità. Sempre per colpa di Georgie. Sua madre, che, come al solito, non si era accorta di nulla, osservò sognante: “Il matrimonio di Georgie sarà una cerimonia magnifica!”
Un grido uscì dalla gola della figlia. Ricominciarono a litigare.
Cristina
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