Costruisci un racconto che si concluda con la frase: “…uscì dalla casa d’aste con 500mila euro in più nella tasca e la soddisfazione d’aver venduto un falso.”

Come tutti i pomeriggi, Mr. Higgins stava spolverando le cornici e le statue del suo negozio. La pallida luce che filtrava attraverso la nebbia londinese proiettava sul tappeto persiano sul pavimento la scritta dorata su una delle vetrine: CHRISTIE’S-OPERE D’ARTE E ANTICHITÀ. Quella luce non si poteva certo chiamare “sole”, ma aveva la rara capacità di enfatizzare la polvere, gli angoli bui, e Mr. Higgins non si fidava della donna delle pulizie quando si trattava di maneggiare la merce.
Mentre gli altoparlanti di un giradischi degli anni’60 diffondevano le note di un’antologia di Carl Maria Von Weber, il curatore d’aste si stava accanendo sulla coda e i garretti della statua in bronzo della metà del XIX secolo raffigurante un cane da caccia che proprio non volevano tornare puliti.
Era irritato e nervoso. Quell’anno non era stato scelto per rappresentare la Casa nella stagione delle Fiere d’Arte in Italia, gli era stato preferito il suo collega più giovane, Rijuji, solo perché usava con disinvoltura quella tecnologia digitale che lui aborriva sopra ogni cosa, e proprio quando aveva più bisogno che mai di qualche giorno nel tiepido clima d’Italia. Moriva dalla voglia di tornare sul Lago di Como, di ammirare da una barca i suoi, come diceva quella poesia locale? Monti elevati dalle acque verso il cielo? Non ricordava.
Il suono del campanello lo riscosse.
Come spesso accadeva, i clienti suonavano il citofono del portone di fianco, più visibile del campanello settecentesco accanto all’insegna. Quando andò ad aprire con un sospiro seccato, per la prima volta da anni il suo cuore tremò. Mr. Higgins era un uomo che sapeva riconoscere le cose belle alla prima occhiata, e la giovane donna che si trovava davanti a lui era quanto di più bello ci potesse essere al mondo. Le labbra carnose e tumide come una rosa in un dipinto di Watteau erano strette in un sorriso imbarazzato.
“Ho sbagliato campanello, vero?” tubò, con una voce più soave del
suono dell’arpa.
“Sì, ma lo fanno tutti” riuscì a rispondere Mr. Higgins.
“Allora la ringrazio per avermi aperto. Henry Higgins, vero? La sua reputazione la precede”.
Mr. Higgins notò che la fanciulla reggeva tra le mani, con un certo sforzo, un involto simile a una testa. Come Salomè con il capo mozzato di Giovanni Battista nella tragedia di Oscar Wilde, si trovò a paragonare.
“La prego, entri” la invitò.
L’altoparlante diffondeva nell’ufficio la musica dell’incantesimo dal Freishultz, ma lui non se ne accorse. Riusciva solo a considerare che quella ragazza, sotto l’impermeabile impeccabilmente inamidato e i guanti di pelle di capretto grigi, doveva avere il corpo sinuoso, perfetto e seducente di una statua di Fidia.
Mr. Higgins si sedette ad un capo dello scrittoio e la bella sconosciuta dall’altro, su una sedia in cui era adagiata con grazia ineffabile.
“Sono Eliza, la figlia del Professor Doolittle” si presentò.
“Ah, il Professor Doolittle, certo! Non sapevo che avesse una figlia.”
“Mia madre era greca e papà un uomo molto riservato sulla sua vita privata, come lei ben ricorderà.”
Posò i suoi occhi su Mr.Higgins. Erano azzurri come le acque del Lago di Como. Lui non poté che assentire.
Eliza proseguì.
“Mi parlava spesso di lei, di che studioso competente, serio e affidabile fosse, così… ho pensato di rivolgermi a lei.”
“Se posso esserle utile in qualcosa, miss Doolittle, lo farò con
piacere.”
“Vede, io vorrei aprire un museo dedicato all’opera di mio padre, alle sue scoperte, ai suoi viaggi, ma queste cose costano e temo di non avere abbastanza denaro, perciò ho deciso di vendere questa.”
Trattenne un singulto addolorato, simile al cinguettio di un usignolo, e posò l’involto sullo scrittoio.
“Un’opera di inestimabile valore: papà mi aveva fatto promettere di non mostrarla mai, ma vivo un momento disperato, e posso confidare solo in lei.”
Mr. Higgins si stava perdendo in quegli occhi turchesi. Avrebbe voluto prendere tra le sue mani quelle di lei, ma si limitò a promettere: “Può
fidarsi di me, miss Doolittle”.
Eliza disfece l’involto. Comparve una testa femminile scolpita nel
marmo bianco. “Mio padre la trovò durante gli scavi tra Corfù e Creta nel’76, ma la celò al mondo per timore.”
“Posso?”
Mr Higgins prese la pesante testa e la esaminò delicatamente. Era
indubbiamente greca, dai lineamenti di purezza e regolarità divini, del II o III secolo a.C., di epoca ellenistica, ma lui riusciva a guardare solo il volto di Eliza.
I dubbi e le perplessità che avrebbero dovuto far risuonare un campanello d’allarme non scattarono. Mr. Higgins era troppo rapito dal
turbamento suscitato dalla presenza di Eliza.
“È una κεφαλή davvero notevole” convenne “solo non comprendo come mai il Professore suo padre, invece di approfondire la ricerca e rendere nota la scoperta, l’abbia nascosta.”
“Lo conosceva molto bene, vero?”
Le ciglia scure sbatterono leggermente, come ali di farfalla.
“Ho appreso da lui il metodo di catalogazione ed esposizione dei manufatti anteriori al X secolo d.C. Gli devo tanto, come tutti i laureati ad Oxford in Storia dell’Arte Antica, Archeologia e Museologia. E ora sono più che lieto di aiutare sua figlia.”
Le sorrise. Eliza ricambiò, splendida e misteriosa come la Lorelai di Heine.
“Per questo mi sono rivolta a lei, Mr. Higgins, perché è il solo tanto devoto alla memoria di mio padre e all’Arte e insieme tanto discreto da poter conservare e vendere questo oggetto. Non le ricorda nulla?” domandò a Mr. Higgins in tono leggermente più malizioso del dovuto.
“Una delle testimonianze della civiltà greca più famose e apprezzate, in cui nome significa Vittoria, giunta purtroppo frammentata e incompleta.”
Indicò la testa di marmo, quasi accarezzandola. Mr. Higgins avrebbe voluto essere al suo posto.
“Questa testa fu trovata sulla costa dell’isola di Samotrakis, là dove più di 2000 anni fa sorgeva un tempio decorato da statue…”
“…tra cui la Nike!” terminò Mr. Higgins.
Osservò meglio la sezione del collo, tenuto fermo dalla mano guantata. Sì, era stata separata da un busto, le proporzioni coincidevano. Il nastro che girava intorno all’acconciatura dei capelli, resi quasi reali da piccoli colpi nel marmo, terminava bruscamente.
Indizi che facevano intuire che il tutto facesse parte di una statua completa. Se fosse stato possibile…questo era il sogno di ogni studioso d‘arte, di ogni curatore d’aste, avrebbe risollevato la sua carriera, l’avrebbe reso immortale! L’emozione gli mozzò il respiro. Guardò Eliza e lo perse del tutto. Dall’apertura nell’impermeabile sbucava la scollatura.
“Miss Doolittle” ansimò “è possibile che le mi stia mostrando il capo della Nike di Samotracia?”
“Così la definì mio padre” rispose la fanciulla dagli occhi azzurri.
“E volete separarvene?”
“Non ho altra scelta, sono certa che lei saprà darle la destinazione migliore.”
“Non posso, miss Doolittle.”
“Perché no?”
“Non posso pagarla, qualsiasi cifra sarebbe irrisoria.”§Quanto poteva valere la testa della Nike di Samotracia? Miliardi, che la casa non aveva. Li avrebbe guadagnati, certo, con una grande campagna mediatica e un’asta pubblica incomparabile. I musei del mondo si sarebbero contesi quella testa a suon di prezzi stellari, e a mediare il tutto sarebbe stato lui, Henry Higgins, imperturbabile sul podio e illuminato dai flash dei fotografi.
Mr. Higgins si sentì sfiorare il braccio dalle dita di Eliza. La ragazza lo contemplava comprensiva. Il suo volto era anche più bello di quello della statua che si interponeva fra loro.
“Io non chiedo una gran somma, caro Mr. Higgins” gli disse in tono irresistibile, “solo il necessario per onorare la memoria di mio padre, e che venga conosciuta come DONAZIONE DOOLITTLE. Facciamo mezzo milione di euro e non se ne parla più?”
Si sporse leggermente in avanti. I suoi seni ricordarono d’improvviso a Mr. Higgins i versi di quella poesia italiana che non ricordava più: Monti elevati al cielo. Profondamente commosso, si alzò in piedi, prese le mani di Eliza tra le sue e lodò la sua generosità. Aveva compiuto un sacrificio in nome dell’Archeologia, e la collettività le sarebbe stata eternamente grata. Che animo nobile, che senso pratico e del dovere! Mezzo milione di euro per la testa della Nike di Samotracia! Sarebbe diventata celebre. Osò baciarle il polso. O bella pelle bianca, o bianca mano! Il divino Petrarca avrebbe subito fatto di lei la sua musa. Si volse per prendere il blocchetto degli assegni e riempirne uno. Si sentiva quasi scoppiare di una felicità che non provava da troppo tempo.

Ancora seduto, Carmelo Patanè lottava per respirare sotto quell’impermeabile troppo stretto.
Anche se continuava ad ostentare un sorriso seducente, sentiva che le protesi mammarie si erano staccate e stavano per cedere e che una delle ciglia finte stava per finirgli nell’occhio bistrato.
Da bambino i suoi compagnucci di giochi in quel remoto villaggio del Sud Italia lo prendevano in giro senza pietà per i grandi occhi azzurri e i lineamenti così delicati e regolari da sembrare femminei. Quando si era
messo in proprio nel grande mercato dell’arte contraffatta, si erano rivelati un vantaggio per convincere meglio gli ampollosi curatori d’aste. Vestire i panni della fanciulla sensuale e innocente funzionava sempre. Quei mercanti più erano vecchi e colti e più erano fessi, desiderosi di giovane,
gradevole compagnia femminile. E Mr. Higgins non faceva eccezione.

Mentre gli porgeva l’assegno guardandolo come una dea scesa in terra, Carmelo assaporò tutto il potere che esercitava su quell’uomo. Come Eliza, avrebbe potuto ordinargli di buttarsi dal ponte o girare nudo per strada e lui l’avrebbe fatto, per la promessa di un bacio o anche di più.
La cosa lo divertiva sempre moltissimo. Ma anche così andava bene. Mentre il disco di Von Weber volgeva al termine, facendo posto al Tristano e Isotta di Wagner, Carmelo mise una mano sulla spalla di Mr. Higgins, che quasi svenne dal piacere, lo ringraziò e gli promise che sarebbe tornata a trovarlo “prestissimo”.

Uscì dalla casa d’aste con 500.000 euro in più e la soddisfazione di aver venduto un falso.

Cristina Morisi


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