Trasforma un incubo di mutismo in un sogno a lieto fine, avendo cura di inserire nel racconto tre elementi imprescindibili della dimensione onirica: un assurdo, un paradosso spazio-temporale e la presenza di un personaggio improbabile e avulso dal contesto.
Si sa, sott’acqua non ti sente nessuno.
E tra le grandi e fragorose onde dell’oceano in tempesta, non mi resta che guardare l’immensa galera su cui viaggiavamo rompersi sotto i fulmini della notte e andare a fondo. L’albero massiccio che si spezza e crolla rumorosamente, il ponte che si squarcia come un pezzo di pane. Niente Australia, niente rocce da spaccare sotto il sole cocente. Forse preferisco annaspare, e poi bere e affogare, che vivere schiavo, lontano dalla mia Irlanda, sempre sotto alla minaccia di un fucile. Mentre lotto per stare a galla, penso che magari è il momento che le belle sirene vengano a prendermi e a tirarmi a fondo con il loro dolce canto. Eppure ho una paura così terrificante nel petto, che mi porta a un dimenarmi, un urlare per una goccia d’aria che son qui a strapparmi la gola dal terrore. Ma nessuno mi sente. E se mi sentissero, nessuno comunque potrebbe fare niente. In superficie c’era un baccano tale che il mondo sembrava star finendo. Suppongo che il mio mondo effettivamente stia alla fine, ma così, mentre questa palla di ferro mi tira giù, mi sembra di aver intorno una gran pace. Non ci sono sirene. Solo i cadaveri dei miei compagni, gli occhi vitrei e lontani. Scendono tutti, verso il buio, come coriandoli sparati al giorno di festa.
Finché tra le sfumature di blu intenso, nella nostra gara verso gl’inferi, non intravedo lei. Ha ancora quel suo vestito di stoffe preziose, l’ampia gonna appiccicata alle gambe sottili e i capelli sciolti ai flutti. È pallida e triste e sul corpetto c’è ancora lo squarcio coperto di sangue, lo stesso di quella notte. Sanguina ancora.
Il terrore di morire si tramuta in terrore di lei. La chiamo forte, ma non mi sente e scompare lontano, nel buio. “Perché sei qui?” mi tremano le mani, i muscoli tesi di sofferenza. Allora nuoto, sgomento, il suo nome mi esplode nei polmoni e in testa e tento di afferrarle le vesti, di tirarla a me, la stringo, piango e urlo e le chiedo: perdono, perdono! Ma lei non risponde. Sott’acqua, si sa, nessuno ti sente. E, morta, continua ad affondare.
Allora la lascio e piango il mio dolore, bestemmio forte gli dèi e questa quiete feroce che non mi fa dire addio, ancora una volta, ad Amore. “Perché ti uccidono di nuovo e ancora non posso che stare a guardare?”.
Poi, lei apre i profondi occhi neri e fa un sorriso tenero alla Morte. Mi guarda, mi asciuga le lacrime, mi dà un bacio a fior di labbra e dice, “guarda, amore mio”. La sua voce echeggia tra le onde e sembra durare in eterno. È tutta intorno a me e mi riscalda. Il buio del fondale che ormai mi abbracciava gambe, caviglie, torace, gola e mi divorava, inizia a brillare, prima un punto lontano, poi completamente mi avvolge. L’ultima cosa che sento è il suo grido stridulo, bruciante e disperato, ovunque, lo stesso di quella notte. Piangendo, aveva chiamato il mio nome mentre la stessa mano che mi aveva affondato un coltello in gola, s’alzava su di lei. Annegavo nel mio sangue, gorgogliando. Forte, la chiamavo e dentro di me mi dimenavo furiosamente. Mi pregava di aiutarla, e le tremavan le labbra e gli occhi che tanto avevo amato. Il mio corpo immobile sul pavimento di legno, le mani socchiuse. In silenzio, l’avevo guardata morire e ora la mia pena è di non poter mai più parlare.
Poi fu luce e basta, accecante, che ci inghiotte e sputa di nuovo nel mondo. Quell’impietoso stridore echeggia nella galleria sotterranea piena di gente. Il treno ha frenato con quel suo stridere ed ora è fermo davanti a noi. Tu, stretta nella mia mano, mi scrolli, mi svegli e mi tiri verso casa. Io, brusco, respiro, come dopo un frenetico scalciare verso la superficie. Dal finestrino, guardo fuori. C’è un bel sole che tramonta sulla giornata fredda. Hai indosso il maglione rosso che ti ho regalato a Natale scorso.
“Perché non andiamo al mare?”, mi dici, appoggiando la testa sulla mia spalla. “Sai quanto mi piace il mare d’inverno”.
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