Sei un regista e vuoi mettere in scena la tua opera preferita di Shakespeare. Il primo giorno di prove, una volta radunati gli attori, ti accorgi che la sceneggiatura in tuo possesso è fallata. Superato lo sconcerto iniziale, pensi che quella svolta nella trama non sia poi così male… Presenta la “nuova” sceneggiatura dell’opera in questione, concentrandoti sugli snodi che la rendono differente dall’originale.

Riccardo entra, posa la corona sulla vecchia sedia di  legno e fruga in una saccoccia. La luce è fredda, ma  soffusa, l’aria opaca. Tutt’intorno, un tiepido buio. Trova  una bottiglia di whisky, una soda. Cerca un bicchiere. Non lo trova.
Riccardo guarda verso il pubblico e ha gli occhi stanchi, acquosi, di un vecchio che ha la guerra addosso, che ha vissuto d’intrighi. Non è più astuto, non più ambizioso. La corona è sua, ma pesa troppo.
L’assenza del bicchiere pare essere l’ultimo sospiro esasperato della sua mente malmenata. Riccardo si  siede, scostando debolmente la corona. Un tonfo metallico, al suolo. 

RICCARDO [con grande teatralità]: Sete! Aspra e feroce. Interminabile nemica, sete. E per un fragile, solitario vetro… [Si passa una mano sugli occhi e riprende con un tono più moderno]. Che poi basterebbe bere dalla bottiglia, ma avevo proprio voglia di un whisky soda fatto bene. 

VOCE SCONOSCIUTA [dolcemente, con finto rimprovero]. Riccardo! 

[Riccardo s’impietrisce. Antica voce d’antico dolore. Non parla. Attende, teme.] 

VOCE SCONOSCIUTA: Riccardo… [Più fredda, ma trattenuta] Come stai? 

RICCARDO [con sprezzo]: Perché mi chiedi come sto? Perché, dopo questo tempo, questo astio, ancora mi cerchi?

VOCE: Quale astio, scusa? [Si intuisce già un certo tono rabbioso che la Voce presto avrà] 

RICCARDO: L’astio del mio cuore ai cani, della terra lontana e solitaria in cui mi hai esiliato, l’astio dell’amore tolto, infradiciato, degli occhi di pianto e delle zanzare che mangiano le gambe. 

VOCE [sconfortata]: Riccardo… 

RICCARDO: Sono stanco. 

VOCE: Lo so. Lo eri anche prima, quando non c’era astio. 

RICCARDO: Sono stanco del tuo ricordo che mi squarcia. Perché torni e mi chiedi come sto? Non sto bene, quando ti penso; sei crudele… 

VOCE: Come sei ingiusto. La mia sofferenza non ha posto nel tuo accusare? Ti ho amato e ti ho sofferto. Strapparmi da te è stato crudele, sì, ma necessario.

RICCARDO [debolmente, con una smorfia di agonia]:  Non lo voglio sentire. 

VOCE [con tanta – predetta – rabbia]: E invece lo sentirai! Siamo tutti stanchi, Riccardo. Di star male e continuamente fuggire, da qualcosa in qualcosa di nuovo, ininterrottamente. E come puoi farmi una colpa del voler star meglio di un pianto soffocato a fine serata? Della pena angosciante, impotente, che dai tuoi occhi gocciolava nei miei. Io non ce l’ho con te. L’affetto che ti ho sempre raccontato, non è cambiato. Se ora ti parlo e ti cerco, non lo faccio per trascinarti a fondo e ricordarti dolore. [Fa una pausa.] Posa la spada, Riccardo. La corona già l’hai abbandonata. 

[Riccardo guarda fisso la sua splendente corona riversa sul pavimento nero. È confuso. Ha un brivido, si chiude le braccia attorno al corpo; pare volersi proteggere.]

RICCARDO [ottusamente, riprende la sua invettiva]: Io non ti ho chiesto niente! Ho accettato il tuo abbandono.  Ho pensato ai tuoi baci e ne ho avuto fame, ma non ho morso. Solo, denti serrati, mi reggevo il cuore e pensavo. E tanto ho pensato, tanto rimuginato e come m’ha sferzato! Non lo voglio più fare. [E ancora, quasi  piagnucolando] Io non ti ho chiesto niente… 

VOCE [non crudelmente, come queste parole lascerebbero intendere]: E non era tuo posto chiedere. Di baci ne puoi avere da chi vuoi, Riccardo. Non erano baci, che volevi da me. Era una mano tesa da poter rifiutare; un orecchio aperto a cui non parlare; occhi devoti da rifuggire. Non guardarmi, mi dicevi. Ma io come potevo non farlo?, quando gl’occhi miei traboccavan d’amore. Non sapevo dove metterlo. Come sfogarlo. Non amavo Amore. Con rabbia, t’amavo. E non si ama così. [Tace brevemente. Sembra riflettere.] 

Tu qualcosa mi hai chiesto, Riccardo. Mi hai chiesto di uccidere Amore. 

[Riccardo trasale, soffre visibilmente, di colpa pungente, di tradimento, avversione; la sua mente è stata denudata e battuta]. 

VOCE: Riccardo, il vero problema è che non riesci a soffrire per niente, se non per il tuo dolore. Non sono io che ti manco, ma l’obbligo che sentivi di dovermi fare una carezza. Non la mia bocca. Il non sceglierla. 

RICCARDO [urlando, indifeso, continuamente sferzato da quelle parole dure e vere]: Tu mi hai abbandonato!  Mi hai lasciato solo! Hai tradito la promessa! Dicevi che  non saresti stata come loro, che non mi avresti ferito! Parole vuote! Vuote! 

VOCE [con furia tonante, imperiosa]: IO! ABBANDONATO? [Poi, come parlando tra sé] Non si  può lasciare qualcuno che non t’è mai appartenuto. 

La voce sconosciuta viene illuminata debolmente. Sta in piedi alle spalle di Riccardo, appoggiata al muro, mollemente. Guarda la nuca del re e ricorda di quando si era sentita libera di accarezzarla. Non lo era mai realmente stata. 

Riccardo singhiozza silenziosamente, a testa bassa. Si stringe forte una mano nell’altra, tra le ginocchia.  Vediamo che un po’ sobbalza, un po’ freme d’un’emozione che non ha mai saputo capire. Non  sofferenza, non rabbia, non pena. Mai un cuore infranto s’era sentito così. 

Sorpreso, d’un tratto si fruga il petto, si sbottona la  casacca, e con le dita ricerca qualcosa di minuto. È  sottile, brilla sotto il fascio di luce. Prima l’elsa lucida, poi  tutta la lama, s’estrae dal cuore. Riccardo la osserva, grondante di sangue. 

La voce si solleva dal muro con improvviso stupore, quasi speranza. 

Riccardo si tocca ancora il petto e si accorge di sentirsi terribilmente solo. Lentamente, con cura, infila la lama nella carne e la rimette al suo posto. 

La voce sospira. La luce che l’illumina si spegne. Emerge dall’oscurità ed entra nel cono freddo di Riccardo. Rimane in piedi, in silenzio, alla sua sinistra. Gli tende un bicchiere. 

SIPARIO

Anna


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