Racconta la liberazione di un personaggio che abbia le seguenti caratteristiche:
è una donna
ha ventisei anni
è balbuziente
è irascibile
vive nei sobborghi di Roma
con una capra.
“Oggi non si respira in questo posto, cazzo!”
Anna si sentiva sempre più nauseata dalla vita che stava conducendo.
Le era sembrato entusiasmante, a ventitré anni, mollare tutto e andarsene a vivere in una baracca nella periferia di Roma, lontana dalla soffocante atmosfera di casa sua e da un lavoro che non le dava alcuna soddisfazione.
“Piantala di u-u-urlare Bo-bo-bobbi!”
Ce l’aveva col suo vicino, un vagabondo sempre alticcio e maleodorante che malediceva tutti i santi appena usciva dal suo torpore alcolico.
Anna stava diventando sempre più irascibile, non tollerava i vicini rumorosi, le chiacchiere inutili, i cattivi odori, i turisti che ogni tanto si avventuravano nei quartieri malfamati alla ricerca di qualche emozione e che spesso lei terrorizzava vomitandogli addosso il suo malessere. Oltretutto quando si innervosiva cominciava a balbettare, vecchio problema che si trascinava sin da bambina e questo la imbestialiva ancora di più, peggiorando la situazione e facendola letteralmente sclerare.
L’unica cosa che riusciva a rasserenarla era la sua fidata amica, inseparabile compagna d’avventura, Mely, una capretta dagli occhi dolci che aveva trovato un giorno, mentre gironzolava spaurita tra le baracche. Anna si era intenerita subito e l’aveva tenuta con sè.
“Ma che mi sta succedendo?” pensava, sentendo crescere dentro una strana inquietudine.
Tre anni prima, quasi inaspettatamente, si era ritrovata a riflettere sulla sua vita e l’aveva trovata così frustrante: un lavoro in un anonimo ufficio di una società informatica che non era mai stata la sua vera ambizione, una convivenza con una famiglia asfissiante che ancora la controllava come fosse una ragazzina, una relazione con un tipo dell’ufficio che cominciava a trovare sempre più inutile e priva di prospettive, insomma una merda di vita che la soffocava.
A ventitré anni non si può vivere così!, si era detta un giorno, guardandosi allo specchio. Devo fare qualcosa.
Anche la sua balbuzie stava diventando un problema, in ufficio si era accorta che quell’idiota di Piero la imitava con gli altri e si facevano gran risate alle sue spalle. Quel suo problema svelava la sua fragilità, era frutto di una timidezza patologica e di una grande insicurezza che si era sviluppata sin da bambina, quando dinanzi all’aria severa di suo padre e ai suoi rimproveri non riusciva a respirare, diventava paonazza e non riusciva a parlare e quando si calmava un po’ e tentava di reagire e giustificarsi, la sua lingua si bloccava sulle prime sillabe e più si sforzava, più la situazione peggiorava, finché non le restava che scappare via a nascondersi da qualche parte con un groppo in gola.
Trovava un po’ di pace solo nella musica. Due cuffie e via, il respiro si placava, tornava regolare e la mente trovava altre regioni in cui vagare lontana da tensioni e sofferenze. Un giorno si era messa a canticchiare e si era accorta che, cantando, la balbuzie magicamente spariva. Ogni volta provava e riprovava, con la sua chitarra in mano, e non riusciva a credere che le parole fluissero così facilmente, in armonia col ritmo della musica. Cantare era diventata la sua droga, la sua isola segreta dove tutto trovava un senso e finalmente riusciva a sentirsi viva e quasi felice.
Per questo quel lontano giorno di tre anni fa, aveva deciso di mollare tutto, lasciare il suo paesino in provincia di Belluno, e provare a tentare la fortuna a Roma, con la sua chitarra in mano e tanti sogni nelle tasche.
La realtà peró si era rivelata molto dura. Cantare sui marciapiedi e nelle piazze le permetteva di guadagnare qualcosa per mangiare, ma per il resto la sua vita continuava a sembrarle priva di senso.
Forse stava sbagliando tutto.
Forse la vera liberazione da una vita così poco appagante non era una fuga dalla quotidianità, dalla normalità, non era passare da un’avventura all’altra alla ricerca di emozioni continue, non era neppure la sua musica, che ormai era diventata solo un mezzo di sostentamento e un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi.
La vera liberazione sarebbe stata recuperare se stessa, riprendere a scrivere i suoi pezzi, magari ma dare loro una forma, proporli a qualcuno e capire se davvero quella poteva essere la sua strada, il suo futuro. Liberarsi dalle sue paure, da quel costante senso di inadeguatezza. Tornare ad affrontare i suoi genitori, che per quando troppo autoritari e incapaci di capirla, forse non meritavano di essere trattati con tanta indifferenza.
La vera liberazione doveva cercarla dentro di sè.
Ed era arrivato il momento di accettarsi e di ricominciare.
Lorella
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