Al tramonto, in autunno, mentre passeggi tranquillamente nel parco, vedi un vecchio passante, che ti riporta alla mente un ricordo lontano. Descrivi questo ricordo soffermandoti sulle emozioni e le sensazioni che ti suscita.

Le foglie cadevano con un movimento danzante, distaccate.
Avevano il colore del tramonto, che però tra i fitti alberi non riuscivo a scorgere.
Il tramonto è sempre stato il momento migliore della giornata, che si addormenta cedendo il posto al sognatore errante e alla luna egocentrica.
Le mie orecchie ascoltavano una canzone portoghese che tanto amo, portandomi all’estate dell’84.
Avevo l’abitudine di non concentrarmi troppo sui passanti, preferendo invece il lavoro laborioso delle formiche, lavoratrici instancabili che al mio passo scomparivano.
Ma quel giorno, come rispondendo a un richiamo proveniente da lontano, alzai la testa.
Era lì. Con il suo gilet di feltro bordeaux e un cappello a scacchi che copriva i pochi capelli rimasti.
Forse bianchi, forse scuri. Non lo so.
Non importava: era il suo sguardo a catturarmi; uno sguardo che avevo già incontrato e vissuto.
Mi sentivo prigioniera di uno sconosciuto, il quale pareva vedermi.
Chi sei?, volevo urlargli, e come fai a conoscermi? 

Che epifanico risveglio da quel torpore incessante.
Mi riportò indietro a quella stagione dove vivevo senza vivere e respiravo senza respirare.
Emisi una lieve risata e mi sedetti a fianco notando il cielo che si stava rabbuiando; percepivo energia.
Sulla mia schiena calò un freddo iniziatico, che capì fin da subito che quelle emozioni le avevo già provate, ma solo quell’autunno di quell’anno e solo con quell’uomo.
Lì.
Non esistevo per inerzia ma inalavo una forza che mi scaldava.
Quelle notti autunnali con lui mi riscaldavano.
Chiacchieravamo di sogni, del mare e del silenzio che in realtà parlava per noi.
Ma sapevo che doveva iniziare una nuova vita, una vita che, impaziente, mi aspettava.
Per molto tempo mi sono preoccupata di chi fossi ma l’amore, quello vero, è solo un attimo fuggente, che non ha pensieri.
Mi lesse nella mente come se ci fosse sempre stato e commentò girandosi: “Stava a te cogliere quell’attimo, sei riuscita a farlo?”
La nausea si impossessò di me e vomitai la risposta: “No.”
Si alzò dalla panchina verde scuro consumata dal tempo e, ormai a qualche metro da me, urlò: “Bastava alzare la mano!”
E si allontanò.
Non lo rividi più.

Scossa, tornai a casa.
E per la prima volta, come non avevo fatto per molto tempo, piansi, riconoscendo il mio cuore pulsante.
Piansi lacrime d’amore.
E, tremando, digitai il suo numero di telefono.

Sofia


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