Al tramonto, in autunno, mentre passeggi tranquillamente nel parco, vedi un vecchio passante, che ti riporta alla mente un ricordo lontano. Descrivi questo ricordo soffermandoti sulle emozioni e le sensazioni che ti suscita.
Si guardava le mani con un certo fisso disinteresse. Ostinatamente in maniche corte, con una felpa accartocciata nella borsa e le ultime luci tra gli edifici. Una giornata democristiana – che non sa se vuole farti bere un tè o una birra. Tiepida, glaciale – finiva. La gente passava perché non poteva fare molto altro. Non c’era un punto d’arrivo o di partenza per nessuno, lì dove stava a guardarsi le mani. C’era solo lei. Ferma. Quieta. Un ronzio aggressivo che le grattava la scatola cranica dall’interno, una botta, una stoccata saltuaria. Pazienza, si disse, e alzò gli occhi. Individuò un albero e sentì che era proprio necessario avvicinarcisi. Le venne voglia di fumare, ma non voleva farlo in piedi. Dopo l’albero un altro albero, un sentiero. Forse più in là una panchina? Non conosceva la città. C’era appena arrivata con un treno preso al volo, ad occhi chiusi, per lasciarsi dietro due o tre persone. Un musicista, un informatico, un insegnante. Tre. Lo scopriremo insieme se questo fuggire ha funzionato.
Una panchina ed un laghetto. Delle anatre. Dei bambini con le sciarpe e il pane. Bello. Si sedette. Gli alberi ancora non avevano quel color d’autunno, ma già stavano morendo. Se ne accorse e si sentì meno sola. Poi pensò che era proprio triste trovar compagnia a questa maniera. Ma pazienza. Coppie sottobraccio si sussurravano altre lingue, vecchi soli, ragazze dalle facce tristi. Un quadro, piccolo, fluido, immobile nella sua normalità.
Pensò al musicista, brevemente, alla maniera a cui si pensa alla persona che ti è accanto. Fece un sorriso, accese la sigaretta. Fumò lentamente, assaporando il fresco nell’aria, il singolo raggio di sole che le finiva negli occhi chiari, di sbieco. Era contenta d’essersi seduta. Un’anatra planò e increspò l’acqua, in modo maldestro, quasi. Pesante. Un ragazzetto smilzo s’avvicinò e le lanciò del pane. Quella mano lasciata mollemente per aria le fece venire in mente l’insegnante. Ci pensò per sbaglio, a come l’aveva stretta tra l’erba, e scacciò il pensiero come si scacciano le mosche. Non voleva farlo. D’altronde, era fuggita. Era in pace, lontana. Del vento, meno luce, un frusciare di foglie, un gocciolare d’ali scrollate. Qualche cane.
Vide una vecchia arrivare da lontano, col suo foulard, lenta, raggomitolata. Piano, avvicinarsi, poi fermarsi. Senza esitazione. Le si sedette accanto. Un moto di fastidio sussultò e tornò a sopirsi. Non c’è proprio bisogno, pensò. È solo una vecchia a casa sua. Poi però la vecchia disse una cosa nella sua lingua. La guardò, capì che non capiva, e riprese a parlarle. Lei non aveva minimamente voglia di fare lo sforzo necessario per seguirla, intendere. Quindi sorrise, allargò le braccia, e tornò a guardare l’acqua. La vecchia sospirò. Sorrise ancora. Parlò ancora. Qualcosa di nostalgico. Familiare, caldo. Ma lei non capiva. Si ascoltavano, chi l’altra, chi se stessa, e quando ebbe finito, le appoggiò una mano sulla spalla. La toccò due volte. Le fece ciao. Si guardarono.
Merda, pensò. Merda.
Lento, vischioso, il ricordo le si mosse sotto la pelle. Chiuse gli occhi, tremò un po’. Lo ascoltò arrampicarsi su per la schiena, due dita sulla nuca, tra i capelli.
L’informatico le stava seduto accanto, nel suo silenzio, nel suo rimuginare. Freddo, impaurito. Volle prendergli una mano, stringerla, fargliela calda. Lui non si mosse. Guardò avanti a sé. Lei smise. Fumò. Smise. Non dovresti fumare. Rabbrividì. Copriti. Mise la felpa. Era la sua felpa, ovviamente. Le era rimasta. Certo. Gli guardò il profilo, i capelli bruni, arricciati sulle orecchie, lunghi, disordinati, e ancora volle allungare una mano, fargli una carezza. Lascia che ti aiuti. Lasciamelo fare. Lui si voltò e basta, poi scomparve. E a guardarla c’era solo quella vecchia straniera dagli occhi profondi, scuri, d’autunno. Ciao, fece, con la mano.
Pensò al musicista e ai suoi stupidi occhi azzurri. Un po’ fu confortata dal fatto che in quegli occhi non riusciva a veder nessun altro. Sorrise piano a ricordar le dita lente che le premevano sul collo. Un tocco così concreto. Allo stesso modo il ricordo le si muoveva addosso, ma non era bello, non ci si accoccolava come un gatto. La riempiva, colma, e aveva paura di sentire troppo. Poi, merda, pensò. Non mi ricordo la tua mano su di me. A quello stesso modo. Ricordo che succedeva. Ricordo che mi guardavi con l’angoscia d’amarmi e non riuscivi a non farlo. Non l’ho mai sentito, e quando appena ci credevo, subito lo dimenticavo. E t’ho amato con disperazione, urgenza d’un amore che dev’esser salvato. Con colpa, ti ho amato. Ma non ricordo il tocco. Non mi ricordo. Non mi ricordo di te.
Anna
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