Questo si chiedeva l’uomo nel giardino d’inverno,
la fine della fine, cosa poteva essere?
Addio, l’ultima raccolta poetica di Cees Nooteboom, edita in Italia da Iperborea, è emblematicamente accompagnata dal sottotitolo Poesia al tempo del virus. L’autore olandese, cronista di eventi epocali della storia recente, quali l’invasione dell’Ungheria nel ’56, il Maggio francese e la caduta del Muro di Berlino, narratore dall’anima raminga nel romanzo autobiografico Philip e gli altri, drammaturgo e poeta, sceglie qui proprio il verso, la più intima forma di comunicazione, per raccontare il nostro tempo sconvolto dalla pandemia. In trentatré brevi componimenti, composti da tre quartine suggellate da un verso finale, si alternano con un moto ondivago ricordi di un’infanzia che ha visto la guerra, la scomparsa di un padre, dolori e sofferenze che, pur nella loro drammaticità, sembravano però avere una fine. La sua poesia, quasi ermetica per levità ed evasività, lascia spazio alle più svariate interpretazioni e sembra ricordare i temi della Waste Land eliotiana. Se nel poemetto di Eliot la “terra desolata” era il mondo moderno quale si presentava nel 1922, con i segni tangibili lasciati impressi dalla catastrofe della prima guerra mondiale, che già avevano portato ad uno straniamento e ad un crollo delle certezze di ordine morale, nella raccolta di Nooteboom essa pare rivivere nella nostra contemporaneità quanto mai incerta e mutevole. La riflessione sottesa alla poesia dell’autore olandese pare essere legata alla relazione che le due diverse catastrofi intrecciano con il tempo. Mentre nella devastazione arrecata dalla guerra, nonostante il suo carattere dolorosamente cruento, sembrava possibile scorgere la fine e dare un nome e un volto al proprio nemico, vista la natura insidiosamente invisibile e fluttuante del nemico odierno è arduo prevedere la cessazione dello sconvolgimento che ci interessa. Questa catastrofe, che sembra perpetuarsi all’infinito e che agisce in maniera subdola e impalpabile, lasciando intatte strade e città, permettendo alla vita di scorrere apparentemente indisturbata come prima, acuisce il senso di spaesamento e di aleatorietà che coglie gli uomini durante cambiamenti epocali. Ma la poesia di Nooteboom è anche universale e trascende le epoche poiché si fa canto di un dolore esistenziale che è il dolore di tutti, ma soprattutto dell’anima delicata dei poeti:
Ancora segnato dalla stessa guerra
era entrato sognando in un mondo
che non era il mondo, si era ritrovato
tra gli altri come uno sconosciuto,
uno con le ali, ma senza
artigli, trasparente, innamorato di conchiglie
e sassi, una foglia nel vento, ora qui
ora lì, circondato da poesie
mai lontano dal mare. Dietro le maschere
stavano gli altri, annegati nei loro specchi
ronzando sommessi nei loro pensieri,
stanze di impensabile semplicità, e mai
un posto.
Addio non è quindi un congedo, ma l’affermazione di come la poesia sia sempre necessaria, di quanto sia legata al suo tempo e contemporaneamente lo trascenda, di come l’essere umano sia inscindibilmente ad essa legato.

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